Il fatto del male

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Atto I > Constatazione della realtà

Il male è un fatto. Ne siamo tutti consapevoli. I bambini rimangono attoniti quando lo scoprono la prima volta. Gli adulti maturano rabbia, resistenza o paura osservandone le manifestazioni nel mondo intorno e dentro se stessi.

Ognuno di noi ha un suo modo di vivere il rapporto con il male nella sua varietà:

  • Il male fisico, inevitabile, obbliga a mutare le condizioni e lo stile di vita secondo la sua gravità e raggiunge l’apice nell’esperienza della morte propria o altrui. Su questo tipo di male non abbiamo nessuna responsabilità.
  • Il male psicologico, spesso imprevedibile, è generato dalle vicissitudini della vita e da limiti e immaturità psicologiche di chi ha influito in qualche modo su di noi. Su questo tipo di male abbiamo una responsabilità parziale, secondo l’atteggiamento e il grado di controllo o dipendenza che assumiamo in rapporto al limite.
  • Il male morale, cosciente e libero, è il male vero e proprio (i primi sono “limiti” della condizione umana) che la teologia chiama “peccato”. È personale perché atto responsabile, non riferito solo a limiti o debolezze ma anche a una certa intenzionalità e ai suoi effetti, potenzialmente gravi e più o meno imputabili.
  • Il male sociale, collettivo, deve essere riconosciuto nelle diverse entità (lo Stato, la Chiesa, la famiglia, il lavoro) secondo il proprio grado di partecipazione e di coinvolgimento in esso e nelle sue conseguenze.

Atto II > Discesa agli inferi

Dura tutta la vita il percorso verso il centro di noi stessi in quell’itinerario che ci riporta a “casa” tirando fuori la verità della persona nella sua realtà più profonda, consapevole e incosciente (infantilismi, immaturità, indifferenza).

È costoso scoprire le proprie resistenze e paure nel guardarsi dentro e scoprire il male proprio. Affrontare gli atteggiamenti difensivi che possono portare alla chiusura totale, al rifiuto o alla negazione dell’idea di limite, è riconoscere la propria tendenza a negare, giustificare, sminuire il male morale oggettivo in base a presunte e soggettive condizioni e circostanze, tutto per la difficoltà di ammettere il proprio male. È la paura di svelare la propria insicurezza, insufficienza e inconsistenza, che crea solo illusioni e presunzioni, falsi allarmi e nemici immaginari, sensi di colpa e uno spreco immane di energia.

La liberazione dal male comincia con l’ammissione realista del proprio male personale in una rilettura “cordiale” (secondo i movimenti del cuore) della propria storia. Recuperi il senso della realtà, identifichi la tua “inconsistenza centrale”, i suoi idoli e illusioni. Fai una diagnosi della tua infermità e della sorgente delle tue disfunzioni, fragilità e vulnerabilità senza inutili sensi di colpa.

Atto III > Cambio di prospettiva

Il processo di liberazione si conclude in fondo al tuo vuoto interiore quando riconosci la presenza di un Altro che lo riempie contenendolo e lasci il tuo abisso personale fondersi con il suo, infinito e di una consistenza che trascende la realtà creata. Questa è grazia.

Quanto tocca a noi è metterci nel cammino dell’accettazione, che non è rassegnazione né ripiegamento su se stessi. È realismo, coscienza serena del proprio limite, apertura a un cammino ulteriore che implica un superamento. Il limite rimane, non viene più subìto in modo passivo né proiettato sugli altri come colpa o condanna, ma accolto come parte di noi stessi per servircene in modo positivo. Diventa luogo teologico in quanto luogo di incontro con Dio nella preghiera e sorgente di una mentalità credente, di vita redenta, il sepolcro vuoto che rimane aperto e da cui uscire risorti per una vita nuova.

[Cfr. A. Cencini, L’Albero della vita, 2005]


La differenza fra il professore saccente e il bimbo sapiente e quella fra un pregiudizio risentito per l’impotenza di afferrare il mistero di Dio con le proprie mani e la fiducia che questo mistero si rivela da sé per essere accolto con semplicità.

Forse non è di A. Einstein quanto detto nel filmato, ma ci vuole uno scienziato per riconoscere come il “male che si vede” non è altro che assenza del “bene che non si vede”? La felicità, come la scienza e la fede, è una questione di prospettiva.