Il nostro tempo è come una casa edificata su diversi strati di sabbia: con il razionalismo (io la penso così), soggettivismo (io la vivo così) e relativismo (per me le cose stanno così) siamo rimasti incastrati in un io consacrato al consumismo delle cose e delle relazioni (va bene finché io sto bene). È la ricerca del benessere l’idolo del nostro tempo, a cui sacrifichiamo ricchezze materiali e spirituali, affetti e valori umani.
Allontanandoci dalla sorgente della Verità e della Vita che è la Via del Vangelo, l’unica relazione autentica con Dio, stiamo perdendo anche le più naturali delle autenticità, le più immediate delle relazioni: quella con gli altri e quella con noi stessi.
La malattia di questo tempo è l’affermazione di sé che può apparire sotto la forma di un narcisismo patologico, ma nasconde in realtà una deformazione della coscienza irretita nel vizio di superbia.
Affermare se stessi usando le cose, le opere, anche buone ma per affermare un ruolo, una posizione, la propria presenza, la propria persona, questo è vanagloria: orgoglio secondo l’ordine del fare. Affermare se stessi usando gli altri, personalizzando relazioni e situazioni, riducendo il prossimo che ho di fronte all’immagine preconcetta che ho di lui, il mio pregiudizio, siano sensazioni, impressioni o sentimenti, tutto questo è vanità: orgoglio secondo l’ordine dell’essere. C’è poi chi non usa ruoli e opere per l’affermazione di sé. Ha lo sguardo di chi sta in relazione solo a partire da se stesso e dal proprio giudizio, gonfio di un’immagine che ha di sé e della realtà ridotta dal preconcetto alle proprie idee sulle cose e sulle persone. Il suo modo di stare nel mondo e nelle relazioni è come un proclama: “io sono”. Scimmiotta il santo nome di Dio, orgoglio secondo l’ordine dello spirito: questa è la superbia. Trascurarla o addirittura abbracciarla, difenderla, coltivarla, ci espone alla superbia di vita: il peccato contro lo Spirito Santo che neanche Dio può perdonare.
Vanagloria, vanità e superbia sono diverse espressioni del vizio di orgoglio, quella ferita originale dell’anima spirituale da cui germina ogni forma di devianza umana.
Le manifestazioni più comuni di questa malattia spirituale che è l’affermazione di sé, nel nostro tempo le possiamo riscontrare in tre forme di atteggiamento. Hai la capacità di osservarle in te stesso se hai già fatto il passo verso la guarigione prendendo fra le mani l’antidoto al veleno dell’orgoglio: “umiltà è fare la verità” in se stessi e nel proprio vissuto in relazione con le cose, le situazioni e le persone. Riscontrare negli altri queste tre forme di atteggiamento è facile, ma è già pregiudizio. Guardare solo a te stesso ti farà riconoscere la tua deformazione dominante, spesso in contesti specifici e motivi diversi. Abbi pazienza con te stesso e porta quanto osservi nel colloquio con la guida spirituale. Avrai la strada spianata verso la pienezza di vita nello Spirito.
Protagonismo
La più comune forma di affermazione di sé può essere considerata sana nell’infanzia e anche se non virtuosa comunque legittima nell’adolescenza, quando si sta compiendo la formazione della personalità e il bisogno di farsi spazio nei gruppi di appartenenza è importante e spesso vitale. È invece una manifestazione immatura del carattere umano più tardi, nella vita adulta: attirare l’attenzione, pretendere di stare al centro del mondo e fare riferimento a se stessi e al proprio vissuto, al proprio ruolo, ai propri sentimenti non allo scopo di farsi conoscere per stare in relazione ma a quello di imporsi per essere riconosciuti. Immagine riflessa nello specchio della verità: scarsa autostima, insicurezza che in certe situazioni e in relazione con certe persone presenta il conto da pagare al proprio orgoglio ferito. È un bene quando me ne accorgo: ci posso lavorare.
Prende posizione contro la propria tendenza al protagonismo chi fa un passo indietro per fare stare avanti il prossimo, chi sta indietro senza nascondersi, chi parla solo dopo avere ascoltato ed entrando in dialogo con quanto ha ascoltato.
Infantilismo
La più ambigua forma di affermazione di sé viene considerata una deformazione della coscienza fin dall’infanzia e si corregge spesso anche nei più piccoli quando si dice loro: «Non fare il bambino!». Si manifesta nell’espressione di aspettative, pretese e reclami che mettono al centro solo i propri bisogni mancando di tenere in considerazione la realtà, le circostanze nelle diverse situazioni e la natura delle relazioni in cui ci si trova. Colpisce in modo sottile, come un’infezione, chi è debole nel carattere o nella morale, facendo leva su sensi di colpa e responsabilità disattese delle vittime contro cui tendono spesso ad accanirsi pretese, reclami e aspettative di chi assume comportamenti infantili. Altra immagine riflessa nello specchio della verità: il bisogno di essere amati. Può essere mancato in modo drammatico nella propria esperienza di vita o può essere stato deluso per una forma previa di illusione o autoinganno, in ogni caso l’amore non amato innesca nella nostra vita interiore meccanismi a volte laceranti e distruttivi. Il disordine interiore si esprime in atteggiamenti autoreferenziali ed egocentrici, infettando le relazioni come una vera e propria malattia, una malattia spirituale.
Prende posizione contro la propria tendenza all’infantilismo chi non parla finché non ha detto tutto quello che ha da dire ma smette di parlare quando ha detto la cosa importante, chi sa valorizzare gli altri, chi sa fecondare il prossimo con l’esempio di vita.
Vittimismo
La più insidiosa forma di affermazione di sé può essere tanto malata, disordinata nella sua radice di orgoglio e pregiudizio, che viene spesso considerata nella diagnosi di vere e proprie patologie psichiche. In una certa espressione, si manifesta in chi richiama su di sé le mancanze degli altri, della vita, della società, in modo sempre meno concreto e più o meno assolutizzato. Nel suo carattere sottilmente violento il vittimismo si accanisce contro il prossimo colpevolizzandolo di mali, azioni e spesso pensieri e sentimenti malvagi presupposti dalle proprie idealizzazioni, interpretazioni e presupposizioni di realtà non verificate. Spesso ha un carattere ancora più subdolo, quando fa leva sui sensi di colpa e false accuse che sono vere in un fondo di responsabilità personale ma false nella concretezza dell’argomento e dello scopo che costituiscono l’accusa: stare al centro del mondo e soprattutto del mondo degli altri. Risulta chiaro come si mescoli alle prime due forme di affermazione di sé e quanto possa essere aggressivo e dannoso per la salute psichica propria e del prossimo, soprattutto familiari, amici e colleghi. Non è altro che un ulteriore riflesso dello specchio della verità sulla malattia spirituale del nostro tempo: inconsistenza esistenziale. Chi arroga a sé diritti non meglio specificati, chi accusa usando come argomenti delle mezze verità che sono sempre intere menzogne, chi afferma la propria condizione di vittima, ha bisogno di un colpevole. Se la condizione di vittima è un’idealizzazione lo sarà di conseguenza anche il colpevole: il vittimismo sta costantemente riducendo il prossimo, la società e Dio stesso alla propria idea di unico responsabile della propria insicurezza, insufficienza, instabilità e incoerenza di vita.
Prende posizione contro la propria tendenza al vittimismo chi sa perdonare, ringraziare, chi non ha parole, ragioni e sentimenti recriminanti sul passato e non nutre aspettative sugli altri ma sa fare di ogni relazione una occasione di incontro.
La malattia del nostro tempo, l’affermazione di sé, è un’infezione che viene da lontano, dalla ferita originale dell’orgoglio in ognuno di noi. La si può combattere ma non si può vincere perché è già stata vinta una volta per tutte con un unico eterno atto d’amore.
La guarigione interiore è un processo spirituale che si realizza nell’amore quando non inteso come ulteriore idealizzazione di sé e dei propri buoni sentimenti e buone opere assunti come trofei da rendere pubblici. L’affermazione di sé più ignobile e misera è quella che strumentalizza anche l’amore, per salvarsi da sé: «io amo a modo mio».
Amare significa pensare, sentire e agire al modo di un altro che è venuto prima di noi e a cui noi non siamo degni di slegare i lacci dei sandali [Lc3,16]. Imparare ad amare vuol dire mettere lui al centro, affermare lui come criterio, modello ed esempio da seguire in ogni circostanza e situazione di vita, relazione, ragione e sentimento.
A imitazione e somiglianza di un uomo mite e umile di cuore che ci ha indicato con la sua vita il sentiero della liberazione e della guarigione del cuore, possiamo camminare con lui verso la pienezza di vita nello Spirito. Camminare insieme.