Due ali per il cielo – Atto II

Quanto più in alto vuoi costruire, tanto più in fondo devi scavare. Per costruire, per far crescere, bisogna saldare bene fondamenta proporzionate ai piani da aggiungere. Se la casa di una struttura umana è già costruita, come nella vita matura, per aggiungere altri piani bisogna tornare sempre alle fondamenta, per consolidarle. Altrimenti per il peso di quanto costruito verrà giù tutto, anche la base più solida.

Nel sentiero per il cielo, la prima delle due ali per ascendere nella vita cristiana è la forma attiva della fede in atto, la più nota e bene accetta della spiritualità cristiana: la preghiera. La seconda, meno accetta ma più feconda, diversamente dalla prima non è attiva. Sta a noi viverla, ma non siamo noi a dettarne le condizioni.

La forma passiva

La via più rapida per la santificazione dell’anima, che ottiene la configurazione alla vita divina come dono dello Spirito, è la mortificazione.

Morire a se stessi è un processo che costa lacrime e sangue. Nelle salite in montagna è la disposizione di chi cambia il passo che gli è solito, o il modo di camminare lungo il sentiero, ordinando tutto il corpo alla lunga fatica, riducendo l’impatto delle asperità del terreno su piedi, gambe e torace, tenendo d’occhio il ritmo e considerando le fermate necessarie per bere. Nella vita dell’anima si tratta di ordinare lo spirito alla lunga fatica verso la vetta, accogliendo le asperità della vita quotidiana come sono e modificando il passo, tenendo d’occhio quanto accade con un sano discernimento per fare di ogni prova, tentazione o debolezza un passo in avanti, un’occasione di crescita.

Un primo genere di mortificazione, che viene dalla vita, dipende dalle circostanze che in essa si danno, dalle cose che cambiano mettendo in discussione desideri e progetti personali, deludendo le nostre aspettative e le nostre migliori disposizioni. Una tappa decisiva della fede in atto è quella di accogliere la vita com’è: agire come se tutto dipendesse da te sapendo che tutto dipende da Dio. Ti fa soffrire quando ti chiede di rinunciare a qualcosa di bello, buono e vero, e ti impone di rinunciarvi, di cambiare strada in una più stretta e scomoda, più povera e rischiosa. Non sembra avere senso ma senti di non avere scelta, continuare per quella via ti condurrà fuori strada e in fondo tu lo sai: ciò che non puoi cambiare è provvidenza, il resto segna lo spazio della tua libertà.

Il modo interiore per gestirla non è la rassegnazione, bandita da Giobbe, ma il sapere stare in essa, entrarci come si fa con la sofferenza che si presenta inaspettata, come la malattia tua o di un tuo caro infermo: un ascensore che si apre per portarti su senza che tu faccia altro che il passo per entrare e lasciarti portare.

Tra le mortificazioni che vengono dalla vita ci sono poi quelle che non dipendono dalle circostanze ma dalle persone. Sono le ferite inferte dalle relazioni che coltivi con chi ti ama, familiari e amici, e con chi stai in contatto ogni giorno, colleghi e passanti, il tuo prossimo. Sono coloro che sei chiamato ad amare a prescindere dall’amore che ricevi, perché se tu donassi amore e rispetto solo a fronte di amore e rispetto a te donato, la tua carità non sarebbe diversa da quella del volontario, dotata di buone intenzioni ma autoreferenziale e ordinata all’appagamento di sé. Non c’è relazione umana che non possa ferire, negare o rifiutare questo fatto equivale ad aprirsi non a relazioni personali ma di convenienza, do ut des, contratti sociali, semplici convenzioni. Ti pesano, ma non hanno peso.

Il modo interiore per gestirle non è l’annichilimento di sé ma l’amore che comincia a maturare verso la carità perfetta. Si tratta di imparare a perdonare, cosa che non è possibile fare solo con il cuore proprio, incapace per durezza e freddezza. Perdonare con il cuore di Dio è un dono che va chiesto, ricercato nel desiderio interiore che viene purificato dalla preghiera per coloro che ci feriscono, non perché smettano ma perché vivano, siano benedetti e santificati. Il cuore umano andrà configurandosi al cuore di Dio e lì saprai di aver perdonato.

Un terzo tipo di mortificazioni che vengono dalla vita e non dipendono dalle circostanze né dal prossimo tuo che ti sta vicino, sono quelle che dipendono da te. Nel cammino verso la vetta, arriva un momento in cui comprendi che amare il prossimo non ha senso se non sai davvero amare te stesso. Crediamo che prenderci cura di noi stessi sia soltanto cercare di essere felici, così riduciamo tutto ciò che ci sta intorno a qualcosa di cui nutrirci: un lavoro per essere autonomi, uno stipendio per essere benestanti, per stare “bene” nel mondo, un corpo per essere ammirati, un ruolo per essere riconosciuti o dei figli per essere amati. Idoli, cose buone ma asservite al desiderio egocentrico di sé, un desiderio di pienezza nutrito con le cose e le persone, relazioni trasformate in atti di consumo. Non nutrono perché mondane. Non sono beni spirituali, per questo l’anima non se ne alimenta e ne viene invece soffocata. Cercare l’essere fuori da noi è rinnegare se stessi come figli di Dio.

Il modo interiore per gestirle è la rinuncia di sé e al proprio modo umano di stare nel mondo per accogliere quello di un altro uomo che sa stare nel mondo al modo di Dio. La santa indifferenza alle cose del mondo ci permette di farne uso e goderne secondo il fine che è loro proprio, non quello da noi ricercato. Con il tempo produce distacco e l’esserne privati non costerà più fatica o dolore. Porterà anzi con sé un certo sollievo,  una sensazione di libertà e di gioia interiore. Anche la morte di un caro venuto a mancare o la sua malattia può essere vissuta con la pace nel cuore quando è ordinata alle cose celesti, abbracciando tutti e tutto davanti a Dio.

Un secondo genere di mortificazioni non viene dalle circostanze, dagli altri o da noi stessi ma da Dio, in modo diretto attraverso le prove di vita spirituale o in modo indiretto attraverso le tentazioni permesse al maligno. Delle tentazioni si è già detto, hanno una dinamica propria strettamente legata alla sensibilità umana. Le prove spirituali sono ben diverse.

Le tentazioni maligne provengono dal disprezzo di qualcuno che prova verso di noi una profonda avversione. Sta lì girandoci intorno attendendo un passo falso, cercando una debolezza dove attaccare quando siamo più fragili e meno vigilanti, esposti. Familiari, amici, religiosi, fedeli accecati da un loro vizio capitale possono essere usati dal maligno attraverso le loro fragilità per attaccare i santi, gli eletti, i cercatori di Dio. Tutto ciò viene permesso perché ogni tentazione ci indica i punti su cui lavorare per crescere, se siamo accorti ci dispone alla preghiera e una volta superata ci viene riconosciuta a merito con un aumento di grazia qui e ora e di gloria celeste più tardi.

Le prove spirituali provengono dall’amore di Dio che ci vuole più in alto nella scala della santità e più vicini e partecipi della sua gloria nella vita eterna. Sono momenti di crescita intensa, in cui siamo liberati da idoli e attaccamenti terreni e mondani attraverso diverse circostanze di purificazione, illuminazione, unione mistica. Le prove di Dio è bene siano soggette ad un attento discernimento spirituale per non essere confuse con qualcosa di altra natura, umana, mondana o diabolica, trappole per farci cadere in superbia e in una forma subdola di presunzione che è l’alterigia spirituale.

Il modo interiore per affrontare le tentazioni del maligno e le prove di Dio è l’umiltà, che si esprime con la pazienza e nel silenzio, la docilità allo Spirito nell’intima comunione con lui attraverso la preghiera e i sacramenti.

La forma passiva per ascendere alle vette della vita cristiana, la mortificazione, è la via privilegiata della scientia crucis verso cui in tanti provano avversione. La disposizione personale nei confronti della croce, della sofferenza, è già in se stessa un indicatore della nostra maturità e salute spirituale. Chi trova nella sofferenza, nella malattia e nella debolezza motivo di astio, repulsione e causa di rabbia, ha un cammino previo da fare. Bisogna poggiare la casa sulla roccia prima di costruirci sopra: una vita vissuta senza cogliere nella croce il modo umano scelto da Dio per la salvezza del mondo può solo scivolare sopra la sabbia di illusioni e aspettative, recriminazioni e attese che non hanno nulla a che fare con il nostro cammino. Le persone asservite nel lavoro o denigrate per quello che sono, i perseguitati, gli ammalati e gli anziani che vivono con pazienza e nel silenzio le avversità esterne e le proprie fragilità, ci mostrano come la mortificazione sia una via privilegiata della pienezza di vita nel sentiero della santità cristiana.