La sequenza di Pasqua canta il mirabile duello in cui si sono affrontate la morte e la vita la notte del sepolcro. La strada aperta con il trionfo della vita viene raffigurata come una scala nel Monastero di Santa Caterina al Sinai (Sec. XII), su ispirazione del trattato mistico del suo abate Giovanni Climaco (Sec. VI-VII).
La scala è una metafora appropriata di tutta la tradizione giudaico-cristiana. È una sintesi della tensione ascetica nella vita dell’uomo che abbraccia le dinamiche dello Spirito nonostante quelle terrene proprie della condizione umana e dell’insidia maligna. È ascetica tutto ciò che noi facciamo per avvicinarci a Dio e mistica tutto ciò che Dio fa per avvicinarci a lui. La mistica dipende dal puro e solo intervento divino: i favori della grazia che infonde la vita divina nell’anima. L’ascetica, spesso malintesa come uno sforzo, un esercizio volontaristico umano, è piuttosto una risposta docile dell’anima, che mossa dallo Spirito, tende sempre di più a morire a se stessa.
Lungi dall’essere inteso come annientamento di sé, frustrazione dei sensi o mortificazione della propria dignità, la via della croce prende le distanze dalle dinamiche del bisogno materiale per favorire quelle del desiderio spirituale.
Morire alle dinamiche della terra si esprime così, in genere.
All’inizio, se si impugna la scala per cominciare a salire, vuol dire che per grazia e buona disposizione si è scelta la Vita con la rinuncia al peccato mortale. Lungi dall’essere perfetti, dato che si sta solo iniziando, è sufficiente che si sia data battaglia, escludendolo da sé, a tutto ciò che offende gravemente la dignità propria, altrui e del bene comune: tutto ciò che Dio ha creato e lui stesso. Ciò implica l’ardua conversione di relazioni, atteggiamenti e comportamenti, gusti e situazioni in cui ricerchiamo il piacere fine a se stesso o in cui restiamo condizionati da istinti, sentimentalismi, interessi egoistici e narcisismi. È il primo passo verso la libertà effettiva, la libertà di guardare in faccia i propri limiti.
Il secondo livello si apre quando, a motivo dell’amore che cresce, si fa spazio nel cuore una seconda conversione. Scegliere di vigilare su se stessi, sul proprio temperamento, accorgendosi del valore che le persone e le cose hanno davanti a Dio e davanti agli uomini: trasforma il proprio vissuto umano in un campo di esperienza dello spirito. Con il tempo ci si purifica, grazie alle diverse rinunce a certi piaceri di un tempo che valgono davanti a Dio come doni, offerte di carità. Anche per effetto della grazia che cresce nell’anima, matura un desiderio ancora più profondo di unione con il divino amore, di vita divina, di semplicità e, fondamentalmente, di libertà. Si fa così una scelta che per tanto tempo era sembrata impossibile e che a un tratto si fa connaturale alla nostra volontà, che cambia orientamento. È la rinuncia al peccato veniale. Ci facciamo liberi, in qualche modo, non solo dalle cose esterne ma anche da quelle interne. Troviamo una certa, nuova facilità nel disinnescare la rabbia e trascurare i sentimenti di avversione verso il prossimo. Diamo meno importanza a cose che in genere avrebbero infastidito la nostra sensibilità, siamo meno suscettibili. Se da una parte la rinuncia di cose normalmente legittime fa sembrare che stiamo in qualche modo prendendo distacco dalla nostra vita di sempre, dall’altra salta agli occhi come la nostra coscienza si fa sempre più delicata, il sorriso più profondo, lo sguardo più libero. È la pace del cuore.
Un terzo livello della scala raggiunge un’altezza tale che si può incorrere nello spiritus vertiginis, una prova che a volte Dio permette e che si aggiunge a una oscurità di fondo nell’esperienza di fede. Questa si fa più pura: l’anima assunta nella vita teologale sperimenta una tale disgregazione dell’amor proprio che non trova più soddisfazione in granché. Il senso del peccato diviene più acuto, possono farsi spazio degli scrupoli, ma va bene, perché partecipano a rendere la coscienza ancora più delicata, sempre più pura. Li si supera con la convinzione che ogni pensiero che non ci aiuta nella vita spirituale non viene da Dio, e così non gli si dà ascolto. D’altra parte, si va facendo spazio l’abbandono di ogni attaccamento alle consolazioni sensibili e ai propri schemi culturali. Diventando spirituali, rinunciamo a ogni ornamento che aveva caratterizzato fino ad allora la nostra vita di fede. Il comportamento religioso non è più ricercato e fine a se stesso in quanto osservanza, ma diventa connaturale all’unione con Dio, senza rigidità e meccanicismi, spontaneo. L’anima è come se andasse alla cieca, ma sempre accompagnata da un vivo desiderio di Dio.
Morire a se stessi non è altro che uscire da sé, svincolarsi prima dagli attaccamenti disordinati e poi anche da quelli apparentemente legittimi, i vari approdi del cuore in cui cerchiamo riparo, stabilità, consolazione. La libertà dello spirito diventa capacità di andare oltre i propri limiti, superarli perché mossi dall’azione vivificante dello Spirito che ci rende sempre meno sensibili alle cose mondane e sempre più spirituali in tutto ciò che concorre a favorire l’unione con Dio.
Vivere favorendo le dinamiche del cielo si esprime così, in genere.
All’inizio, anche se non si è impugnata la scala, in qualche modo le giriamo attorno. È così quando ci accostiamo alla fede con la preghiera vocale. Impariamo in modo un po’ meccanico a parlare con Dio cercando di favorire un atteggiamento interiore di devozione: prima sempre un po’ sottomessa e di timore, poi sempre più familiare e di confidenza. La preghiera vocale più matura è quella che troviamo nella testimonianza di tante persone anziane. Venendo meno la lucidità, aumentando la spossatezza e rallentando il respiro, corpo e anima riposano nelle formule, che non sono più vuote parole ma incenso che sgorga dal cuore. Si impugna la scala e si comincia a salire crescendo nella preghiera mentale con la meditazione dei misteri evangelici e poi la contemplazione nel raccoglimento attivo: il riposo nello Spirito diventa sempre più frequente, la preghiera perde sempre più il carattere dialogico intellettivo per crescere nell’intima cordialità di un abbandono dei sensi nella presenza di Dio per azione della grazia. Più avanti nella vita mistica, la contemplazione diventa passiva: è Dio che trascina a sé l’anima nel suo abisso di silenzio, in cui i sensi e lo stesso spirito vengono come sospesi, l’anima si raccoglie come un verme nel suo bozzolo per rinascere farfalla e spiccare il volo nella carità perfetta.
Ascendendo lo spirito un gradino dopo l’altro nella preghiera, la vita divina si fa spazio nell’anima a misura di quanto essa stessa sceglie di morire alla propria natura corrotta prendendo distanza dal peccato anche veniale, dagli attaccamenti sensibili e dalle consolazioni spirituali. La corrente di grazia si manifesta allora nel vissuto quotidiano, nella concretezza corporea della vita morale. Non è uno sforzo della persona che cerca di essere migliore, ma una crescente sua facilità, nelle intenzioni, azioni e reazioni quotidiane, a esprimere umiltà, pazienza, cordialità. Le virtù non sono atti ricercati ma gesti spontanei, il comportamento morale non è affermazione della propria bontà per l’osservanza religiosa, ma testimonianza di uno spirito nuovo per la presenza di Dio. L’anima si accorge, soffrendone, dell’imperfezione dei suoi atti quotidiani, percepisce in modo più vivo la sottile avversione verso i difetti degli altri che ne denota l’orgoglio sempre vivo anche se morente ai vizi capitali. Tuttavia, anche se miserabile ai propri, agli occhi degli altri la persona sembra quasi trasfigurata, apparentemente inaccessibile per la nuova profondità dei suoi sentimenti e l’altezza delle intuizioni, la delicatezza dei pensieri, la semplicità degli atteggiamenti. Se la vita di preghiera irriga l’anima, le virtù ne costituiscono il germoglio spirituale.
A un livello ancora più alto della salita, l’anima tanto più si distacca dai propri bisogni, interessi e aspirazioni quanto più manifesta davanti a Dio, primo e solo a coglierli davvero, atti sempre più puri di servizio disinteressato, di carità perfetta, che fioriscono dai doni dello Spirito Santo. È una forma di vita quotidiana molto concreta che sa rispondere alla realtà rendendo presente il Regno di Dio che è Gesù vivo. È una certa docilità alle mozioni dello Spirito, che fanno deviare il tragitto in auto, donare beni essenziali, rinunciare a guadagni legittimi, assecondare comportamenti altrui, anche molesti, e ogni altra opera di misericordia corporale e spirituale per il bene del prossimo e la gloria di Dio. La persona agisce come fosse guidata da una forza invisibile, silenziosa e delicata, mossa non da se stessa ma dallo spirito di un altro che è lo Spirito del Signore. Nell’assecondare la grazia che la muove, l’anima vive come una sospensione del proprio sentire e volere, uniti a quelli di Dio, ma si muove e ama con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le sue forze. È Dio vivo che nel suo Spirito s’incarna ancora una volta: un altro Cristo. Sono momenti, occasioni, circostanze: come la contemplazione infusa durano pochi minuti, ma sono intensi. L’anima prende coscienza ricordando intimamente ogni cosa, consapevole di essere stata al cospetto di Dio, una cosa sola con lui. Questa gioia è il suo gaudio, lo desidera sempre di più.
Salendo la scala della santità moriamo al mondo e a noi stessi per vivere in Dio.
Lo Spirito Santo è donato da Dio per conformarci alla sua divinità, per configurarci alla sua umanità. Accogliere lo Spirito è una lotta intima dell’anima che entra in battaglia per morire e assapora la vittoria vivendo attimi, momenti di eternità. Il vissuto quotidiano è il nostro campo di battaglia, va affrontato in modo lucido e consapevole, con animo acceso e desiderio ardente di portare a compimento quello che nel nostro Battesimo è cominciato: la vita divina degli uomini e delle donne che hanno scelto Dio sopra ogni cosa.